SPERO CHE TU DANZERAI

Giorgia è un’educatrice meravigliosa.

Il suo essere così speciale credo derivi dal fatto che prima di essere un’educatrice è una persona con un cuore grandissimo.

“Raro è trovare una cosa speciale, nelle vetrine di una strada centrale. Per ogni cosa c’è un posto e quello della meraviglia è solo un po’ più nascosto” canta Niccolò Fabi e Giorgia ne è la prova vivente.

L’ho incontrata ormai più di un anno fa, una mattina di Aprile, smontavo dalla mia prima notte in comunità e non ero riuscita a chiudere occhio. Le notti quando non dormi sono interminabili, dalle due alle tre i minuti sembrano durare i doppio e ogni rumore è amplificato. Come prima cosa le chiesi: “miglioreranno con il tempo?” e la sua risposta fu: “assolutamente no!”. Sincera e spietata ma aveva ragione.

Mi parlò di N., la sua N. per chi non lavora in comunità è difficile comprendere l’intensità del rapporto che si crea con i bambini che la vivono, è quasi surreale, visto dall’esterno. Vivere la quotidianità intensifica il rapporto, crea dei legami profondi e indistruttibili. Stare e Fare insieme, una serata a base di film, pop-corn e coccole sul divano, preparare la tavola insieme, addobbare la casa per Natale, giocare in cortile, fare un pic nic al parco; questo è quello che facciamo, nulla di speciale ma la quotidianità regala ricordi indelebili.

La forza di noi educatori sta nel creare legami pur sapendo che i nostri bambini, sono destinati ad un posto migliore, che arriverà il momento di doverli lasciare danzare. Il dolore che si prova è paragonabile alla fine di una storia d’amore, io conosco la sensazione, anche Giorgia lo sa bene e lo racconta così:

“Erano gli ultimi giorni, quelli dove i pensieri più angoscianti non mi lasciavano, quelli dove gli occhi all’improvviso si riempivano di lacrime, quei giorni in cui il pensiero di doverla salutare mi spezzava letteralmente il cuore. Casualmente lessi una poesia:

Promettimi che darai a ciò in cui credi una possibilità di lottare.

E quando ti si presenterà la scelta di star seduta in disparte, o di danzare danza.

Io spero che danzerai

La feci mia e la trascrissi su una delle prime pagine dell’album dei ricordi che le avrei lasciato ilgiorno dei saluti. Album ricco di foto, di pensieri, di colori, di momenti che volevano restituire a N. anche solo un pezzettino di memoria di quello che era stata lei e di quello che eravamo insieme.

Era proprio questo che le avrei voluto dire e dedicare per tutta la vita: la possibilità di sentirsi bella, forte, coraggiosa, di non sentirsi meno di nessuno, sensibile ma con la grinta giusta per affrontare ogni giorno della sua vita nonostante la sua vita, fin da subito, l’avesse messa di fronte ad una prova che nessuno dovrebbe mai affrontare.

Passammo insieme i suoi primi 15 mesi di vita, arrivò a pochi giorni dalla nascita nella comunità minorile dove lavoro, arrivò in uno dei mesi più freddi dell’anno e fin da subito ci scegliemmo per scaldare l’una il cuore dell’altra.

Per me lei era la MIA bambina.

L’ho cresciuta come tale, in turno, tra le mura della comunità e fuori, a casa mia. La portavo ovunque, a vedere rumorose partite di basket, gare di atletica (mia passione per cui fantasticavo un giorno lei sarebbe diventata una fortissima quattrocentista ot riplista o anche tutte e due) passeggiate al lago, era sempre presente nelle uscite con mia mamma o in quelle con le mie amiche che fossero colazioni o cene, volevo che conoscesse una casa, una casa vera che lei non aveva e che io non potevo accettare non avesse.

Per me era l’amore più grande che avessi mai avuto. E’ stato giusto? Ho fatto bene a creare tra noi questo legame così unico e grande? Inevitabile, l’amore arriva all’improvviso, non si sceglie di amare qualcuno, lo si fa e basta.

Fu nel giorno più romantico dell’anno che la sua mamma e il suo papà adottivi vennero per conoscerla. Due persone speciali, una mamma e un papà che non mi hanno mai esclusa e mi hanno sempre fatto sentire parte della vita di N. una mamma e un papà dal cuore grande dove ha trovato posto N. e tutta la sua storia precedente. A loro va il mio grazie per aver fatto si che l’angoscia, le lacrime e la paura che mi accompagnavano nel lasciare N. si siano trasformati in gioia, felicità e sicurezza nel sapere la MIA bambina, VOSTRA.

Ricordo ancora quel giorno afoso

La aspettavamo da tre anni. Anni fatti di colloqui, burocrazia, foglia da compilare, sale d’attesa ma soprattutto una continua messa in discussione delle nostre capacità genitoriali.

Come posso sapere se sono una brava mamma se non lo sono mai stata?

Ad un certo punto il dubbio è venuto anche a me. Forse non ne sarò in grado, saprò dirgli di no quando serve? Saprò essere amorevole ma al tempo stesso autoritaria? Quando sarà adolescente? Non dovrò essere troppo rigida. Eppure quando l’ha vista per la prima volta, ci siamo guardate negli occhi e tutti questi dubbi sono spariti.

Era un pomeriggio caldo, in un villaggio dell’Etiopia centrale. Dopo un estenuante viaggio in jeep tra la terra e le strade dissestate, arrivammo davanti ad un portone rosso acceso, un uomo molto alto e smilzo lo aprì e scendendo dalla macchina sentii le urla di tanti bambini in lontananza. Ci accompagnarono nel cortile dell’orfanotrofio, un edificio enorme, su una delle pareti notai il disegno di un mondo con attorno bambini di tutti i colori e una scritta:

“Imagine all the people living life in peace, you”

Centinaia di bambini giocavano e urlavano in un campo di terra, un polverone creava nebbia, gli occhi iniziarono subito a bruciare e la gola divenne completamente secca. Una suora con un velo azzurro ci salutò calorosamente, si presentò come la responsabile dell’orfanotrofio e ci disse che la nostra bambina era al piano superiore.

Mentre suor Lucia ci raccontava della nostra bambina, io non riuscivo ad ascoltare, cercavo di abituarmi al forte odore di candeggina mista a cibo speziato che aleggiava nei corridoi della struttura, sbirciavo nelle stanze: decine di letti a castello in stanzoni enormi, finestre piccolissime per mantenere gli ambienti freschi ma che non permettevano alla luce del sole di entrare, nessun lenzuolo e bambini piccolissimi che dormivano a terra su teli logori. Il mio sguardo venne attirato da un salone dal quale proveniva della musica, sembravano delle prove di canto. All’interno c’erano bambini di ogni età che ballavano e suonavano bonghi, bambini dagli sguardi tristi, vestiti stracciati, a piedi nudi, con indosso maglie troppo grandi per corpi troppo piccoli.

La suora, mi vide incuriosita e mi raccontò che i bambini erano circa 450. Molti di questi erano entrati da piccini e diventati grandi, dopo aver compiuto gli studi nella scuola dell’orfanotrofio, hanno continuato ad aiutare, perché quella era diventata la loro famiglia.

Poi la vidi, la mia bambina, era in fondo ad un lungo corridoio, indossava un vestitino azzurro con le balze; le sue treccine erano raccolte in una coda con un elastico blu. Aveva gli occhi che brillavano e lo sguardo triste, non sorrideva; guardava il pavimento come se stesse cercando un tesoro. Era meravigliosa. “Ecco mamma e papà!” esclamò la suora alla piccola. Lei alzò lo sguardo e con una voce lieve disse: “benenauti”, subito venne ripresa dalla suora che precisò l’errore di pronuncia.

Oggi Kamala è con noi da un anno, ho smesso di chiedermi se sono una brava mamma, faccio una quantità enorme di errori e sono la donna più felice del mondo. Prima di addormentarsi Kamala mi chiede sempre di cantarle una canzone, io non ho mai dubbi, la scelta ricade sempre su quel meraviglioso pezzo che lessi quel giorno afoso nell’orfanotrofio di Wolosso.

Affetti stabili

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Sono giorni strani, la mia anima inquieta e costantemente attiva è stata messa a dura prova. Solitamente, quando il mio cervello iniziava a produrre un esubero di pensieri, uscivo di casa e camminavo. Da un mese a questa parte sono stata costretta, come tutti,  a fermare il mio corpo ma la mia mente continuava a vagare senza sosta, così, ho deciso di ascoltare i miei pensieri e coccolarli. 

La parola che mi risuona nella testa in continuazione è ABBANDONO. 

Mi chiedo perché in una parola così piena di solitudine e malinconia risieda sfavillante la parola DONO. 

Associo l’abbandono ad una perdita di abitudini, ad una mancanza profonda, ad un dolore silenzioso, un vuoto. 

Fino a qualche giorno fa, ero certa di conoscere a fondo il suo significato, è una sensazione che ho provato così tante volte da averla interiorizzata e rielaborata, ma non ancora accettata. 

Poi in un libro ho trovato queste parole: 

“Con il tempo ho capito che abbandono è un atto di restituzione, chi mi ha abbandonato non mi ha lasciata sola ma mi ha restituita a me stessa. ABBANDONO, su quel do, nota musicale o verbo, ho imparato a far camminare la mia salvezza. Perché chi ci abbandona non ci lascia, ci salva”. 

Così mi sono ritrovata a ripensare a tutte quelle persone che sono passate nella mia vita e che per assurdi motivi ora non ci sono più, oppure ci sono ma è come se non ci fossero. E’ buffo, nel momento in cui siamo felici abbandoniamo le persone con le quali parlavamo quando eravamo tristi. 

Difficile pensare al vuoto lasciato da una persona con la quale hai vissuto istanti importanti di vita come un DONO. 

Poi ho pensato a quanto sono riuscita a conoscermi in quei momenti, a scoprire i miei limiti, proprio negli istanti di vuoto che lasciava un’amicizia perduta, una amore svanito, un nonno mancato. 

Ho scoperto di essere una donna forte, estremamente indipendente. Una donna che ama stare da sola ma alla quale non piace sentirsi sola. Sono due cose ben diverse, anche se spesso tendiamo a confonderle. Una donna che ama ballare in mutande canzoni tristi, che riempie la casa di piante per sentirsi felice, che ascolta podcast di filosofia anche se non li capisce e che non smetterà mai di affezionarsi alle persone, perché le relazioni sono un DONO IMMENSO. 

Grazie ai miei AFFETTI STABILI per esserci nella mia vita nonostante tutto! 

Manda a qualcuno una lettera d’amore.

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Quando ero piccola passavo molto tempo con la mia nonna Teresina, lei mi ha insegnato a cucire, a fare gli orli dei pantaloni e a giocare a ruba mazzetto. Mi ha anche insegnato l’arte del corteggiamento, mio nonno doveva essere un mago in quello.

Mia nonna mi ha raccontato che il giovano Piero, una mattina le aveva chiesto di poterla riaccompagnare a casa una volta finita la messa della domenica, lei aveva rifiutato imbarazzata. Lui non si arrese, passò tutte le sere alle 19.00 sotto casa sua, si fermava all’angolo vicino alla Cartoleria a fumare a pipa, mia nonna guardava dalla finestra senza fare nulla, lui la salutava e andava via. Ci mise un mese prima di avere l’onore di passeggiare per la strada principale del paese accanto a mia nonna. Lui le portava i fiori colti dal suo orto e li lasciava davanti al portone di casa sua, le scriveva delle lunghe lettere dove raccontava del giorno in cui si era innamorato dei suoi grandi occhi e di quando avrebbero avuto tre splendidi figli.

Ci siamo forse dimenticati di quanto siano belli i piccoli gesti?

Pensate di rientrare dal lavoro e trovare una lettera nella vostra cassetta della posta, una busta verde, con il vostro indirizzo scritto a penna sul retro e un francobollo con il timbro. Se la avvicinate al naso potete ancora sentire il profumo della persona che ve l’ha scritta. Che meraviglia prendere il coltello e aprirla come faceva la mia nonna, con cura, come se fosse qualcosa di estremamente prezioso. Passare le dita sulla carta e sentire il calco della penna sul foglio. Ammirare la scrittura imperfetta, le macchie di inchiostro e la cura con cui le parole sono state scelte, la lentezza è la chiave delle lettere scritte a mano. La meravigliosa attenzione per i dettagli.

Io vivo di dettagli. Vivo di piccoli gesti che nessuno sembra notare ma che a me restano incastrati tra i pensieri e i ricordi. Ricordo ancora quando il mio primo ragazzo mi regalò per San Valentino un barattolo del miele vuoto e sopra aveva appiccicato un’etichetta dove aveva scritto: “questo vasetto contiene tutto il mio amore per te”. Penso che nessuno mi abbia più fatto un regalo tanto bello. Oppure quando un mio amico mi ha aspettata fuori dalla comunità dove lavoravo con un birra in mano dopo un turno di lavoro difficile. Ricordo tutti i post-it che mi sono stati scritti, tutte le canzoni che mi sono state dedicate e quelle che hanno fatto da sottofondo a momenti importanti.

Pensa a quanto sia bello sentirsi dire “Ti ci devo portare”. Significa che la persona che te lo ha scritto ha pensato a te in un momento speciale, avrebbe voluto viverlo con te perché quel momento, che da speciale sarebbe diventato PERFETTO. E’ una dichiarazione d’amore che pochi sanno fare, la si usa in modo troppo frettoloso, senza pensarci. Ma io do un peso ad ogni parola scritta e detta, quando qualcuno mi dice “ti ci devo portare”, io ci credo.

È che in fondo sono le piccole attenzioni che mi danno la forza, il coraggio.
Un buongiorno alla mattina, un semplice come stai detto con la consapevolezza di accollarsi un probabile messaggio triste, un post-it lasciato sul campanello, la sola idea che qualcuno c’è per me, nonostante tutto.

Non abbiamo bisogno di grandi atti, ma sono i piccoli gesti per farci sognare. Quindi, prendete carta e penna e scrivete una lettera.

non avremmo mai dovuto

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 (racconto liberamente ispirato da “Stavo pensando a te – Fabi Fibra nella versione cantata da Canova e Fulminacci) 

Mi sono messo in malattia, il mio cuore si è rotto, batte ad una velocità supersonica, ho sempre freddo e ho perso l’appetito. Sono dei sintomi gravi o mi sbaglio?

“Sono malato!” ho detto al mio dottore “è mal d’amore, passerà” mi ha risposto lui.

Ci sarà una cura? Esisterà un metodo scientificamente dimostrato per evitare la sofferenza causata dalla perdita di un amore? Magari un’amnesia, se dimenticassi tutto quello che ti riguarda? Dal giorno in cui ci siamo incontrati sulla spiaggia, a quello dove ti ho cucinato le lasagne nel micro, a tutte quelle volte dove abbiamo dimenticato di avere degli orari, dei doveri e dei pensieri e ci siamo solo amati per arrivare poi a quella in cui ci siamo detti addio.

Che figata andare al mare quando gli altri lavorano, ho pensato guardando fuori dal finestrino di un regionale. Sì, ho rinunciato all’idea dell’amnesia, ma cosa credo di vivere in Eternal Sunshine of the Spotless Mind? Cretino. Così sto andando al mare.

Poi penso anche che è febbraio e qualche giorno fa ha nevicato, che sono doppiamente cretino, che dovrei chiamarla e urlare: “vedi, mi sentivo strano, sai perché? Stavo pensando a te!”.

Ma poi mi siedo sulla sabbia fredda, con le onde del mare incazzate, che si infrangono sugli scogli e la salsedine che inizia a farsi sentire sui capelli e ricomincio a respirare. Forse dovrei dimagrire, o partire, ma chi voglio prendere in giro? Lo sanno tutti che sono pigro.

Ora ti chiamo. Non rispondere ti prego, non farlo. Perché non mi hai risposto? Oddio, ma ti stai sentendo Manuel? Sei diventato bipolare? L’ho detto al dottore che tutta questa sofferenza non può essere un comune mal d’amore, è sicuramente qualcosa di più grave.

Al bancone del piccolo locale sulla spiaggia non c’è quasi nessuno, il barista mi chiede se voglio vino bianco o rosso, rispondo un gin tonic doppio.

“Non bere troppo che diventi un mostro” mi ripetevi spesso quando uscivo con i miei amici, non li hai mai sopportati e non ti ho mai chiesto il motivo, forse avevi ragione, sono dei coglioni.

Il barista mi serve il mio drink e mi chiede se va tutto bene, è una domanda di rito di quelle che si fanno per gentilezza ma non ci si aspetta una risposta.

“Grazie per avermelo chiesto e no, fa tutto schifo. Sa qual è stato il problema? Che io non penso di essere pronto per diventare padre e io un figlio non lo voglio proprio. Lei mi aveva appena detto che mi avrebbe dato il mondo… e io non sono stato capace di dimostrarle che nonostante tutto, ci sarei stato. Hai visto che cretino? E poi a te manco ti conosco, non so perché ti sto raccontando queste cose”.

Mi sta squillando il telefono. E’ lei.

“ …non avremmo mai dovuto incontrarci” e mette giù.

E’ finita davvero.

Amarmi

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Vi svelo un segreto, io a casa da sola, ci sto bene! 

Mi piace vivere da sola, l’ho desiderato tanto e ci sono riuscita. 

Ci ho messo più di un anno ad abituarmi all’idea che la casa dei miei genitori non fosse più casa mia, ad abituarmi a nuovi odori, alla mancanza del rumore della pioggia sul tetto, al caos costante. 

Vivo in una casetta che mi rispecchia, è piena di oggetti che per me hanno un grande significato, ricca di ricordi e di momenti. 

Amo le mie piante e ho un rapporto di amore/odio con l’acquario. 

Mi piace il profumo del mio copripiumino, l’ho lavato pochi giorni fa ed è rimasto sul balcone ad asciugare al sole. 

Mi piace stare in casa. Mi è sempre piaciuto. 

“Sei fortunata!” mi sento dire quando ammetto di non soffrire di astinenza da aperitivi, vorrei rispondere che no, la fortuna a sto giro non c’entra nulla, con gli hanno ho trovato la bellezza in me. 

Mi capitava spesso, anche prima di questa dannata reclusione, di sedermi sul divano con un disco degli smiths in sottofondo, le luci soffuse e un gin tonic tra le mani. 

Amo sedermi con la sedia sul balcone e guardare la gente che passa o immaginare le vite degli altri, delle sagome nere che vedo passeggiare nel palazzo davanti. 

Mi piace svegliarmi presto la mattina e stare a letto, godermi il sole che piano piano fa capolino dalle fessure della tapparella, fare colazione al posto del pranzo e merenda al posto della cena. 

Dipingo, suono, cucino e rammendo i vestiti rotti. Accumulo vasetti di vetro e ho una fissa per i profumatori d’ambiente. 

Non credo nel modo più assoluto alla frase: La mia casa sei tu. 

La mia casa sono io… anche se è vuota quando non ci sei. 

Restate in casa, dicono tutti.

Noi non ci possiamo fermare.

Restate in casa, dicono tutti.

I miei bimbi vivono in una comunità, sono in 10 più due educatrici al mattino, due al pomeriggio e una la notte. Un enorme via vai.

Ma noi non ci fermiamo.

Casa-Lavoro-casa.

Non faccio altro da tre settimane.

Oggi per la prima volta ho avuto paura. Mi è capitata poche volte nella vita la sensazione di essere intrappolata. Il nodo alla gola, l’aria che non arriva ai polmoni, la tachicardia. Un amico mi ha detto che si chiama attacco di panico.

I nostri bimbi hanno tutti la febbre. La pediatra dice tutto bene ma poi mi saluta con un “buona fortuna” ed è risaputo che io ne ho sempre avuta davvero poca.

In coda davanti alla farmacia ci saranno state una decina di persone, tutte con la mascherina. Il farmacista dietro ad un vetro minuscolo cerca di spiegare ad un anziano signore che ha bisogno dell’impegnativa del medico, lui non sente, non riesce a capire cosa gli stanno chiedendo e cerca un aiuto dalle persone in coda vicino a lui. Nessuno parla. Al signore cade la tessera sanitaria e nessuno ha il coraggio di avvicinarsi a raccoglierla.

Sento i miei occhi riempirsi di lacrime, mi avvicino al signore e gli sorrido,  lo aiuto a cercare tra i suo fogli disordinati quello che sta chiedendo il farmacista, mi abbasso e raccolgo la sua tessera sanitaria.

Nonostante la paura, ricordiamoci di essere Umani.

Ho visto tutto nero.

Poi rientro in comunità e mentre sto raccontando l’accaduto alle mie colleghe vedo la mia piccola Gabri fare i suoi primi tre passi da sola. Mi ha ridato speranza.

ANDRA’ VERAMENTE TUTTO BENE ❤

Vorrei.

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Vorrei poter scrivere di aver viaggiato tanto nel 2019, invece ho comprato un divano bello grande. Ci sto io sopra, circondata da libri, che guardo fuori dalla finestra e immagino le mie montagne dell’infanzia, quelle che ammiravo dalla finestrella in cucina della casa in valle d’Aosta. Quante persone sono passate davanti a quella finestra e ci si sono fermate, era impossibile non stupirsi. “Trova un posto dove stare bene e portaci chi ami!” mi disse una volta la nonna, io lo feci. Girammo il divano, spostammo il tavolo e restammo per ore a guardare il Monte Rosa, abbracciati sotto la coperta, tu mi toccavi la mano e io ascoltavo il tuo respiro. Sono passati anni e io ho un divano enorme da riempire.

Non ho mai amato i buoni propositi, le check-list, il riassunto dell’anno passato. Sono imprevedibile, impulsiva e lunatica, cambio idea 10 volte in 5 minuti, con me non funzionano; però un proposito per il 2020 quest’anno lo faccio. Sì, perché vorrei poter scrivere di aver passato tanto tempo in compagnia nel 2019, invece ho comprato un acquario.

Il 31 dicembre 2020 vorrei poter scrivere di non essere più sola sul mio divano griglio (mi accontento di un Dalmata o di Timothée Chalamet, sono una donna umile), voglio smettere di essere un turista nel cuore delle persone.

Impariamo a perdere tempo.

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Questa mattina Trenitalia ha soppresso il treno, sul quale stavo viaggiando, diretto a Milano Centrale, lasciandomi alle 5.30 in Garibaldi con la metro ancora chiusa.

Dopo aver insultato il capostazione, il macchinista e il controllore (con i quali vorrei tanto scusarmi, sono stata maleducata!) cerco di capire come evitare di perdere un treno per Roma che ho pagato ben 100 euro (in partenza alle 6.00!!!) e una lezione del mio Master. Nessuno dei tre sopracitati riesce a darmi delle informazioni sui mezzi sostitutivi.

Chiedo ad un signore, seduto fino a pochi istanti prima accanto a me sul treno, anch’esso diretto in Centrale, se conosce un bus. Mi guarda e frettolosamente mi dice: “non ho tempo da perdere!” e inizia a correre.

Così un po’ incazzata, salgo in superficie diretta verso un bus notturno, che ricordavo di aver preso al ritorno da una meravigliosa serata all’Ostello Bello. Vedo due ragazzi con delle grosse valigie, erano con me sul treno e sono un po’ spaesati. Cerchiamo insieme questo bus e scopriamo che dovrebbe passare 15 minuti dopo, perderei il mio treno.
In lontananza, immerso nella nebbia, vedo arrivare un tram, chiedo all’autista e… passa da Centrale!

Il treno sono riuscita a prenderlo al volo, sono seduta accanto ad un signore che mi ha offerto dei biscotti al cioccolato e pochi istanti prima che il treno partisse ho visto colui che “non aveva tempo da perdere!” correre disperato.

Lui ha perso il treno, io ho conosciuto due meravigliosi ragazzi innamorati diretti a Parigi e ho visto Milano con la nebbia, ancora assonnata, a bordo di un vecchio tram, che si sa, io vado matta per i tram ♥️

Non smetterò mai di dirlo, la gentilezza… salverà il mondo ma soprattutto Trenitalia Ti Odio.

… dimmi dove sei mi faccio tutta Roma a piedi

Amo gli incontri.

Quando viaggio da sola mi capita spesso di osservare le persone, sorridere quando incrocio lo sguardo di qualche sconosciuto sul treno o per strada.

Mi succede a volte di incontrare persone che, con un semplice sorriso, mi completano il cuore.

Questi ultimi giorni sono stati desi di persone nuove, emozioni strane come di legami che piano piano si spezzano.

Però Roma mi regala sempre grandi persone.

Caldo atroce.

Aspetto un autobus che in cuor mio so che non arriverà mai.

Ascolto in loop la stessa canzone perché c’è una frase che sembra parlare del mio stato emotivo attuale:

“Cara amica mia promettimi che persa nei tuoi giri, se qualcuno ti parla di me, un sorriso ti spaccherà in tre”

Un ragazzo mi chiede dove sto andando con questo zaino enorme. Gli dico che cerco di arrivare a Termini ma il 170 sembra non passare da Viale Marconi.

“Si sente che non sei di Roma, dai accompagno te e Calcutta, che hai nelle cuffiette, alla fermata giusta!”

La gentilezza ha quella meravigliosa capacità di rompermi lo schema.

Saluta e se ne va.

(Ammetto di aver fantasticato su una possibile storia d’amore tra noi due ma questa è un’altra storia!)

Sul bus siamo tutti schiacciati.

Non mi sentivo così compressa da qualche estate fa in attesa di sentire i Linkin Park e i Blink gli IDays.

Una signora francese mi sorride.

Tira fuori dalla borsetta un ventaglio di pizzo azzurro e ci spruzza del profumo di lavanda.

Inizia a sventolarlo.

Per entrambe.

Si chiama Monique e abita in Provenza, o almeno così mi è sembrato di capire.

Festeggia il 50º anniversario di matrimonio con il marito, sono tornati a Roma.

Tornati perché questa città magica fu la loro prima vacanze insieme.

Forse non attiro solo persone sbagliate.

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